Uncorked: il film ordinario di chi tenta lo straordinario

Il film di produzione Netflix che parla di vino. O quasi.

Quando si sceglie di guardare un film dal titolo “Il Sommelier”, o “Uncorked” nel suo titolo originale, ci si aspetterebbe di trovare personaggi di alto livello di erudizione, in divisa, spilletta nel revers della giacca, le migliori etichette di vini italiani e francesi che scorrono in contesti di grandi degustazioni, panel di esperti.

Ci si aspetterebbe come ambientazione una cantina chilometrica che funge da pista da corsa per la carriera di un promettente e motivato sommelier.

Ma anche il contrario, un genio incompreso del vino che lavora come lavapiatti e studia le bibbie del vino di notte, condividendo uno squallido appartamento con i fratelli più piccoli e una nonna anziana.

Dimenticatevi di tutto questo, scordate sia l’impostazione da gala, che la fiaba che diventa realtà e sintonizzate lo spirito sul mood rock’n’soul.

Vi porto a Memphis.

Ora, per capire l’essenza del film, concentratevi per un attimo sull’accostamento di questa prova colore, possibilmente astenendovi dal giudizio personale che potrebbe essere fuorviante:

Da sinistra:

Il verde-azzurro trasmette rassicurazione, lealtà, un senso di fiducia.

L’ocra e il sabbia sono fini e delicati, ma celano energia calibrata, e la creatività sbiadita del giallo potente, anche se a modo suo rappresentano il calore che sentiamo dentro casa quando la casa è un luogo naturale di rifugio e il rifiuto è ancora inconscio, ci ricorda la vita che passa senza che ti chieda altro in più di quello che il quotidiano impone. La vita che scorre diafana.

Il marrone conduce il pensiero alla durevolezza, alla casa, all’arredo di certi locali vecchi, pregni di vita e di polvere, di fatica e di odori di cucinato.

Poi arriva il Bordeaux, saggio parente del rosso che è passione irruenta. Il Bordeaux rappresenta qualcosa di solido, di vero, confermato, complesso e fermo nella sua certezza.

Se guardate di nuovo la tavolozza, noterete che lo sguardo si concentrerà sempre sulla tinta forte di destra, e anche se sappiamo che l’occhio riposa meglio sugli altri, se siamo consapevoli che la tranquillità naturale sia tutta a sinistra, l’occhio cadrà sempre sulla forma di destra. Questo succede quando amiamo davvero qualcosa, quando realizziamo di aver intravisto la strada per cui siamo venuti al mondo.

Arriviamo alla trama, il cui schema è abbastanza lineare: una routine quotidiana che scorre in un locale BBQ a conduzione familiare inaugurato dal nonno anni prima, un luogo dall’arredamento squallido dove ogni giorno è uguale all’altro, dove i clienti-parenti sono sempre gli stessi e le costine di maiale diventano l’emblema della certezza di un pasto caldo a basso costo. Il figlio che nutre il grande sogno di diventare Master Sommelier che non può permettersi di realizzare perché troppo economicamente oneroso,  la famiglia unita che lo sostiene con sacrificio mandandolo in Europa a studiare – e nel mezzo il padre che soffre di tradimento per la scelta del figlio – una disgrazia che interrompe il flusso ordinario delle cose, un sogno che sembrava vicinissimo, il padre tradito che si riavvicina con fatica al figlio lasciandogli quella libertà che sottende alla speranza egoistica che il figlio possa uniformarsi alla vita del padre portando avanti il locale, lasciando perdere l’ambizione una volta per tutte.

Gli ingredienti per il sensazionalismo ci sarebbero tutti: lo stereotipo dell’afro-americano dalle movenze sinuose immerso nel suo contesto popolare blues, l’enotecario che dà ripetizioni pre-esame al protagonista che è tutt’uno con la sua passione, l’amore sincero di una ragazza che non è mai uscita dalla sua città, frasi (un po’ forzate), che denunciano una padronanza della materia: si può dire che lo Chardonnay sia in qualche modo il nonno di tutti i vini, il viso dolcissimo di un ragazzo che non si arrenderà mai in nome dell’amore per il vino, ma che qualche volta rallenta per senso del dovere nei confronti della famiglia.

Eppure, nonostante i personaggi ocra immersi in scene marroni e verdognole, dai modi proverbiali, standard e senza misteri, in nessuna scena è stato tentato di colpire lo spettatore con sentimenti di pena per quel ragazzo che scopre la sua vera natura e la deve inseguire, o di rabbia per un padre che non comprende, o che non accetta di dover comprendere. In questo film hanno un po’ tutti ragione perché ognuno è spinto da un ideale, giusto o sbagliato che sia. In questo film, l’oggettività non esiste.

Resta quindi difficile smuovere dei giudizi veri e propri sui personaggi, e questo contribuisce a creare una certa delicatezza d’insieme. D’altro canto però, il livello di coinvolgimento resta debole. Siamo divisi tra fare il tifo per quel ragazzo umile e ambizioso, e allo stesso tempo lo vediamo fuori contesto durante il viaggio che potrebbe cambiargli la vita. I temi come l’amore di coppia o l’amicizia sono sfiorati ma mai approfonditi per scelta, perché non sono altro che temi distesi su uno sfondo sbiadito a tinte chiare per far esaltare la caratteristica più importante: la passione che fa comprendere la finalità della propria esistenza. Il Bordeaux della tavolozza.

Non bisogna quindi aspettarsi un film sul vino, ma è giusto così, il web è pieno di seminari, podcast, manuali, articoli… forse il senso di un racconto del genere, in un luogo così squallido è proprio questo: raccontare non il vino tecnico, ma la forza travolgente con cui è necessario affrontare una passione di questo tipo, gli sforzi che siamo disposti a fare per raggiungere vette tanto alte, lontani da casa, nella scomodità infima della competizione, nell’ammettere che il tuo compagno più odioso ha avvertito il sentore di mandorla che le tue mucose non avevano distinto nemmeno in un’olfazione ripetuta.

E’ cosi che tutto torna in una scala cromatica a tinte diafane, disturbate dalla discromia calda che però, per uno strano principio, si integra alla perfezione con tutto il resto, sembrandone una naturale evoluzione.

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