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Manifesto di un palato indipendente

Se c’è un ambito in cui ognuno si sente detentore di scienza esatta, quello è il vino.

Per questo, mi sento di dire che la mia non è altro che la storia di un aspirante sommelier semiseria, per non rischiare di essere circondati solo da eruditi.

Tutti a studiare DOCG di dubbio gusto, DOC che hanno dato visibilità al paesello di due case e dieci gatti, IGT battute all’asta per migliaia di euri/dolarss/dobloni per bottiglie bevute dalle iconss del fashion wine system.

Che tenerezza osservare l’aitante neo-sommelier X che swirla fierezza parlando di miti, perché lui sa di abitare sotto un cielo di stelle del firmamento e di rocche vinifere inespugnabili, e neanche si accorge che il cru del vicino questa volta può essere davvero più verde.

Ehi, con il naso all’insù, gli aromi non li senti.

Io ho deciso di viverla diversamente, e vi racconto come è andata.

Ero in fila per un caffè, dopo un pranzo luculliano in un paesino dominato da un castello “nel cuore del Chianti Classico”, come adorano dire di queste zone senza tempo.

Mi giro distrattamente e inizio ad osservare, nell’attesa di quel desiderato caffè, gli scaffali di legno scuro che esponevano quegli immancabili bouquet di celeberrime etichette che insieme hanno fatto la storia, e che quindi ora fanno scena, più indivisibili di Carla Fracci e del suo tutù, più immancabilmente combinati di Thelma e Louise.

Per non cedere al sonno da stomaco pieno, sempre più desiderosa di caffè, mi rivolgo all’allora direttore di corso Fisar che aveva organizzato la giornata, e dico, indicando la parete: “quello è uno dei miei preferiti!”.

A questa uscita è seguita la sua: “martedì puoi anche non presentarti al corso. In questo vino ogni annata è uguale all’altra”. Mi veniva da piangere.

Più che per il vino, che comunque continua a piacermi senza vergogna, la sua affermazione mi ha fatto capire che stavo sbagliando approccio con prodotto. Il martedì successivo mi sono presentata al corso ma con uno spirito più neutro.

 Ho assaggiato i miti perché è giusto e basilare farlo, perché è giusto tirarsela un po’, ma anche perché alcuni ne hanno ben donde di fregiarsi del titolo di mito, fanno davvero sognare.

In questo percorso magnifico che è la passione per il vino, ho capito che la certezza e il mercato finanziario appartengono al mega brand bandiera, ma che il futuro del valore oltre la materialità, è del produttore innamorato che porta le sue bottiglie con fierezza nei saloni e che passa inosservato al Vinitaly, che sull’etichetta ci mette l’immagine vettoriale del nonno/cane/casa di famiglia e tante altre cose già viste, lontane da motivi dorati baroccheggianti (e meno male), o da bellissime grafiche concept, ma che ci piacciono perché parlano di tutti, in modo sempre nuovo, parlano di ricordi lontani che ci accolgono sempre con la sfiatata di calore sul viso e sul palato.

Bevete il vino, non il produttore, provate quello stesso vitigno in posti diversi, scrivete appunti come se fosse il primo giorno di lezione all’università, annotate sulle tovagliette delle degustazioni, parlatene con quel povero santo che dovrà guidare al ritorno. Assaggiate alla cieca e affidatevi solo al vostro naso e al vostro gusto.

Solo così vi avvicinerete al contenuto con consapevolezza e prenderete le distanze da disturbi e da manie di consumo acritico e smodatamente modaiolo, imposti dal luccichio internazionale.

No, non voglio essere anti-conformista a tutti i costi, ho già mostrato il mio apprezzamento per certi big e continuerò a farlo, ma chi mi conosce sa che più che i dettami della moda preferisco seguire uno stile, perché è una ricerca non solo fa stare bene, ma che fa stare addirittura meglio.

Scegliete il colore che vi esalta l’incarnato, non il pantone della stagione se vi fa sembrare convalescenti. Scegliete l’emozione in un calice, la storia che vi racconta: fate parlare il cuore, non l’etichetta.

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